Era il luglio del 1990, quando Riccardo Muti sul palcoscenico allestito alla Rocca Brancaleone levava la bacchetta a inaugurare la prima edizione di Ravenna festival, esattamente trent’anni fa e nello stesso luogo che oggi ospita la “rinascita” della musica dal vivo dopo i lunghi mesi di quel lockdown che per combattere l’epidemia ha costretto tutti gli italiani, insieme al resto del mondo, a isolarsi, i teatri a chiudere, le orchestre a tacere. Dunque, il nostro Paese ricomincia da qui, dalla quattrocentesca fortezza veneziana incastonata nel cuore della città, e a dare il primo segno di speranza e di incrollabile fiducia è di nuovo il maestro Muti sul podio della “sua” giovane Orchestra Cherubini, confidando nel prediletto Mozart. Perché dopo la prima, timida e segreta prova d’orchestra del giovane Skrjabin, una breve miniatura scritta nel 1898 che tanto piacque a Rimskij-Korsakov, ecco che la scena si apre al genio mozartiano, chiamando a intervenire la voce: al talento di Rosa Feola è affidato il celebre virtuosistico mottetto composto proprio in Italia, nel 1773, a Milano, poi l’estatico, cullante lirismo dell’Et incarnatus est, dalla Missa Solemnis, quasi una scena pastorale, permeata dell’ingenuità di un amore puro, incondizionato per l’umanità. Così come nel futuro si proietta il suo estremo lascito sinfonico con cui il compositore sembra lasciarsi alle spalle insuccessi e delusioni attingendo a una miracolosa fonte di vitalità musicale con maestosa, olimpica grandezza – Jupiter, appunto.