La musica di questo Requiem è tonale, coinvolgente, suggestiva e particolarmente evocativa. Musica concepita, come scrive Beretta sul programma di sala, per essere abbinata a proiezioni video o immagini a tema. L’energica orchestrazione fa sì che per tutta l’ora di musica si rimanga letteralmente avvolti dalla musica - complice anche l’ottima acustica della basilica – e rapiti in un viaggio musicale che mentalmente ci riporta ai durissimi momenti del lockdown. L’incipit è dato proprio dal suono registrato delle sirene che con il loro intervallo tra sesta maggiore e minore, come racconta l’autore, erano diventate la drammatica colonna sonora di quei giorni e l’incubo delle sue notti, tanto da portarlo ad esternare le angosce sul pentagramma componendo la musica di questo Requiem. Una musica che avvolge, eleva l’ascoltatore, commuove e fa riflettere: i credenti aprono il loro cuore al Signore, i dubbiosi si sciolgono e maturano la convinzione che se Dio esiste, l’unico modo per poterlo sfiorare è con la potenza assoluta della Musica. Non vi è mezzo più potente per arrivare a Dio, al supremo, all’incommensurabile, all’inspiegabile della musica vera, potente, immortale come quella composta da chi è in grado di parlare ai cuori con il proprio linguaggio musicale: e Marco Beretta ci è sicuramente riuscito.
quanto meno funzionali i titolari delle parti di fianco, con il Marullo dalla linea pulita di Gianluca Andreacchi
Gran bel materiale pure quello del tenore calabrese Davide Tuscano, un po’ teso nella ostica parte del Duca, che però ha onorato eseguendo anche il daccapo della cabaletta.
Il tenore Davide Tuscano è un Duca di Mantova dal materiale vocale interessante.
Il tutto nel vuoto di una scena che la regia di Roberto Catalano costruiva, passateci il verbo, sulla sottrazione più radicale: solo quattro fari mobili, azionati ad incorniciare e a ridefinire lo spazio – giocoforza asfittico - entro cui i personaggi avrebbero ordito la loro tela di amore e di morte. Attorno, niente. Solo lo scheletro nero dell’Auditorium, tra cemento e vetrate, e la notte. Un Rigoletto “giacomettiano” e per diversi aspetti cameristico, dolorosamente scarnificato fino al limite estremo della sua essenzialità, con qualche inevitabile taglio alla partitura e quattro sole voci a rappresentare, velenoso contrappunto alle angosce del gobbo buffone, la “dannata vil razza” della corte gonzaghesca. [...] Andate a vederlo. Questo Rigoletto della rinascita merita una passeggiata nel parco.
La regia di Roberto Catalano, obbligata alle distanze imposte, ci ha risparmiato le mascherine, impossibili da vedere in scena. In mancanza di scene ed attrezzo, si è ricorsi alla luminotecnica, con i proiettori spostati dagli stessi interpreti che hanno cantato senza nemmeno sfiorarsi. Ne ha risentito particolarmente il quartetto del terzo atto: né il Duca ha potuto abbracciare Maddalena, né Rigoletto e Gilda cantare nascosti in un angolo. Ciò detto, non si è trattato di un “concerto in costume” e, anzi, alcune scene hanno avuto una valenza affatto nuova: per esempio durante i “Cortigiani” contro cui si scaglia il protagonista, reso ancor più drammatico dall’assenza del coro.