Puccini mi ha sempre portato fortuna, pur non essendoci un rapporto semplice tra di noi, a volte il compositore inibisce la libertà al regista dal momento che descrive minuziosamente tutto quello che deve succedere in scena. La rondine è un’opera atipica nel panorama delle opere pucciniane, prima di tutto la protagonista non muore di morte orribile, tisi, morte per stenti, suicidi (ce ne sono almeno 4 nella non certo sterminata produzione del nostro). È un titolo che amo profondamente: ebbi la fortuna negli anni ‘80 di fare da assistente a Pierluigi Samaritani che per primo mise in scena a Bologna la terza versione di questo titolo, quindi me la studiai un po’ al piano e confrontai, grazie allo straordinario studio di Alfredo Mandelli e alle illuminanti pagine di Michele Girardi, le tre versioni che Puccini ha elaborato. Come regista chiamato ora in causa resto del parere che, al contrario di Madama Butterfly dove la ultima versione del 1906 è sicuramente la più celebrata, qui vince in assoluto la prima versione, dove il personaggio di Magda nel corso della trama acquisisce un senso di indipendenza proto-femminista e il taglio drammatico e musicale è sintetico e drammaticamente coerente. Le analogie con Traviata sono fondamentalmente due: la prima è che anche in Rondine una cortigiana di alto bordo ha fremiti e nostalgie di amore puro e devoto; la seconda è che un provincialotto di media estrazione sociale riesce a fare breccia nel cuore deluso e inaridito della protagonista. Ma qui finiscono le analogie: al contrario di Violetta, che per redimersi dalla sua vita scandalosa e offensiva deve espiare con il sacrificio e la morte, cosi la morale benpensante dell’epoca è tranquillizzata (“ti perdono solo perché muori”.), nella Rondine abbiamo una donna che, messa davanti alla scelta se chiudersi in provincia a fare figli con la suocera fissa in casa a controllarla e giudicarla, decide di ritornare alla sua vecchia vita di sempre, richiudendosi in un bozzolo di lusso sfrenato, rinunciando sì ad un ideale d’amore vero ma almeno mantenendo una propria libertà e indipendenza davanti allo spaventoso progetto di vita che il povero Ruggero, nella sua incrollabile dipendenza dalle decisioni materne, le prospetta. Sia la trama che soprattutto la scrittura musicale mi sembrano piuttosto lontani dall'estetica verista coeva, Puccini è sempre stato un compositore onnivoro, affamato di novità, sensazioni, moduli nuovi e diversi: nel '17 era già reduce dall'esperienza americana, le numerose citazioni di balli "stranieri" è presente in tutta la Rondine, per non parlare dell'europeizzazione della sua scrittura orchestrale: Debussy in primis ma anche Stravinsky e Ravel fanno capolino ovunque, mischiati con Jazz, Gershwin.. Forse si può parlare di una terza analogia con Traviata: una delle protagoniste dell’opera è proprio Parigi, la città dalle mille luci e tentazioni che affascina, stritola, seduce ed inebria nel suo ruolo di popoloso deserto. Puccini connota La rondine in una metà ‘800, ma vista la sensualità della trama, sentivo l’esigenza, insieme con la costumista Buscemi e lo scenografo Taraborrelli, di identificare un’epoca che accarezzasse i corpi femminili in modo meno ridondante ed eccessivo. Abbiamo puntato su una Parigi anni ’50, l’epoca della grande sartoria degli Shuberth, dei primi Balenciaga, contrapponendola nel secondo atto agli ambienti “alternativi” e fumosi frequentati dalle giovanissime Juliette Greco e muse consimili e storditi dalle violenze dei balli Apaches. Il terzo atto, che parla di una ipotetica Costa Azzurra, si risolve in una modesta stanza d’albergo dove due amanti, con il testosterone al massimo, si chiudono per fare l’amore in continuazione: è un mondo illusorio e fittizio perché il denaro, altro importantissimo elemento drammatico nell’opera, viene a mancare. Magda e Ruggero sono felici e beati ma anche tanto squattrinati, e questo alla fine si evince dalle piccole rinunce e da un certo squallore di fondo che farà optare Magda per la scelta definitiva e francamente più giusta per entrambi.
Stefano Vizioli